Ebbene sì, oggi mi sono deciso. Sono entrato da Pasqua (Musicanova), il negozio di dischi della mia cittadina (San Donà di Piave), per prendere l’ultimo album dei Cure. Sono passati più 40 anni da quando entrai nello stesso negozio ad acquistare quello che probabilmente è stato l’album che più ha influito alla mia crescita, non solo musicale. Forse non il migliore che ho ascoltato, ma senz’altro quello che più ha cambiato il mio approccio alla musica. Era dei Cure pure quello!
Sembra impossibile ma dopo quattro decenni siamo ancora ognuno ai nostri posti: io davanti al microfono e al mixer di una radio, Pasqua dietro al bancone del negozio di dischi e soprattutto Robert Smith davanti, dietro e dentro la sua creatura: i Cure.
Per celebrare queste “resistenze” e questo nuovo disco vorrei raccontarvi di quel giorno di 40 anni fa: un ponte temporale di feroce passione per il suono che perdura ancora. Again and again, and again…
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Avevo 14 anni quando sentii per la prima volta “A Forest” alla radio e fu una folgorazione. Lo speaker m'informò che “Seventeen seconds”, l’album dei Cure che la comprendeva, era uscito qualche anno prima, nel 1980. Il giorno successivo a quella rivelazione decisi, senza perdere tempo, di salire sull’autobus che mi avrebbe portato alla fermata più vicina al negozio di dischi.
Ricordo molto bene l’emozione di quando, frugando nel reparto new wave, lo sguardo incrociò la copertina dell’album, perché provocò in me uno strano senso di estraneità, quel sentimento che spesso mi separa dal resto del mondo. La copertina non era nitida come le altre, le immagini erano sfocate, sembravano confuse, quasi prive di colore. Sembravano rappresentare meglio di ogni altra cosa quella mia adolescenza, fatta di introversione e di insofferenza.
All’epoca l’acquisto di un album era un evento e l’ascolto una cerimonia sacra, ci si doveva preparare a dovere. Spensi la luce della camera, lasciando solo la tremante luce di una candela, estrassi il vinile dalla custodia, appoggiai delicatamente l’ellepì nel piatto e feci scendere la puntina sul primo solco. Il mio apparato uditivo si apriva, grazie ai quei segnali sonori, ad un mondo misterioso e oscuro che all’inizio mi disorientò. Erano suoni e parole che andavano a scavare interiormente, in profondità, e non c’ero abituato. Però contenevano quello di cui avevo bisogno in quel momento particolare: la ricerca di cure per ferite inedite. Amore e morte s'affacciano per la prima volta nella mia vita e lasciavano segni laceranti in una pelle ancora priva di scorza. Un troppo di realtà che m'investiva notte e giorno togliendomi l'aria. Ecco perché questa specie di autoanalisi tesa all’individuazione di quei maledetti 17 secondi, quegli istanti che in un attimo possono far morire un amore, stravolgere la vita, sembrava arrivare al momento giusto. Le canzoni apparivano come la descrizione di un malessere esistenziale derivante dal non senso e dall’assurdità di ciò che ti succede attorno ed erano perfette per un adolescente che si sentiva spaesato e fuori posto. La ricerca di una cura era essenziale per trasformare quei “dolori” in romantica malinconia condivisa, quel "mal stare" in quella dolce inquietudine che trasuda in molti artisti.
“Play for today”, il brano che apre il disco, già m’indicava le sole cose che invece un senso ce l’hanno: quelle che si possono sentire immediatamente sui nervi e sulla pelle.
«il problema non è quello di fare le cose giuste.
È quello che mi sento di fare che conta.
Dimmi che sbaglio
Non mi importa che lo pensi»
(Play for Today)
Contemporaneamente "Seventeen Seconds" spalancava alle mie orecchie una inesplorata foresta sonora che mi reclamava e mi esortava a inseguire la sua sensuale voce. Una selva piena di richiami, sonori e narrativi, da individuare nel sottosuolo come preziosi tartufi.
Così mi facevo cane, annusavo quei profumi forti, imparavo a seguirli e a rompere i guinzagli del già sentito. Meglio perdersi, ancora ed ancora, che essere incanalati in sentieri segnalati che portano a mete conosciute e prestabilite.
Abbandonare le rette vie per seguire le contorte e sconosciute mappe disegnate da questo disco ha dato il via ad infinite transumanze alla ricerca di supporti fonografici che indicassero altre intriganti vie di fuga. Stavo per cominciare a trasformarmi in quel bulimico sonoro che in futuro diventai. Investivo in dischi tutti i risparmi ricavati dalle paghette settimanali e dalla sfiancante stagione estiva passata a vendemmiare e pagata in nero. Ed “in nero” non era solo il mio salario ma di nero avevo anche cominciato a vestirmi. Pur sapendo che l'abito non fa il monaco cercavo comunque di indossare pienamente quegli stati d'animo “dark” che il mio sentire m'imponeva.
Come recita un vecchio adagio: “angoscia e tormento possono condurre, talvolta, al piacere” proprio come quei “17 secondi” che stravolsero, e forse salvarono, la mia vita.
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Erano atmosfere curative per un cuore giovane che sanguinava. Se sanno esserlo ancora, sinceramente non lo so. Però che il cuore mi sanguini ancora, in questo periodo storico, è comprensibile: guerre, il clima impazzito e un genere umano che sembra correre imperterrito verso il burrone che si è scavato da solo, e che sembra non vedere il precipizio dinnanzi a sé.
La prima canzone del nuovo album, Alone inizia con un lungo intro strumentale, pare non cominciare mai, e quando comincia Robert canta «This is the end of every song that we sing», citazione del poeta inglese Ernest Dowson, parole perfette per quella miscela di suoni e tenebrosa malinconia che sembra fuori dal tempo.
Dopotutto queste otto canzoni non sono affatto adatte al ritmo veloce e isterico del consumo sonoro, tipico della nostra epoca: sono lunghe tracce dentro cui dondolarsi lentamente. Canzoni da un mondo perduto, per ogni generazione disintegrata che continua a chiedersi: «È possibile essere disperati e felici contemporaneamente?»
Penso di sì, e queste atmosfere curative possono aiutare. Again and again, and again…