Nemmeno ci provo.
Proprio non ne sarei capace.
E credo non ce ne sia il bisogno.
Di scrivere qualcosa su David Lynch, dico.
E poi lo hanno già fatto in tanti, più competenti di me, in questi giorni e altri lo faranno in futuro.
Poi in un batter d’occhi, a volte capita proprio così, nel tempo infinitesimale/infinito di un batter di ciglia, all’improvviso capisci.
Comprendi che, nonostante la mia scarsa preparazione in ambito cinematografico, mi sono comunque formato permeato dalla visione dei suoi film.
David Lynch mi ha portato dentro a certi rit(m)i del mio sentire.
Mi ha costretto a interrogarmi, oltre che sul significato delle immagini, anche sul senso del silenzio. Che non è tanto l'assenza di suoni, ma la base stessa del suono, del linguaggio e forse anche del cinema.
Perché c’è anche un silenzio degli occhi. Ad esempio quando abbassi le palpebre per non guardare e contemporaneamente per vedere di più. Un ossimoro necessario per sottrarsi al bombardamento di immagini quotidiano e guardare, o almeno immaginare, quello che solitamente non è dato a vedere.
Penso che, oggi più che mai, dovremmo ricercare qualcosa di scuro nelle inquadrature di un film, se tutto è illuminato e si può vedere ogni cosa, allora non c’è il mistero dell’imprevisto, quello che apre lo spazio al possibile. Così come credo che, per gli stessi motivi, dovremmo renderci sensibili a quei fili di silenzio di cui il tessuto del suono è intramato.
Insomma sono, da sempre, attratto anche da ciò che non si vede e da ciò che non si sente. Così come mi piacciono le musiche cinematiche e i film che più che seguire una trama sembrano seguire una partitura.
Solo a partire da questa consapevolezza, ben presente nel cinema di Lynch, si può scoprire che paradossalmente il silenzio parla molte voci. Ce n'è uno prezioso (il silenzio è d'oro) e uno che indica penuria (il silenzio di tomba), ma anche il silenzio che crea tensione (un silenzio da brividi) e quello della mancanza come in Lisbon story di Wenders quando il fonico registra l'assenza dell'amico.
John Cage diceva: «Non esiste il silenzio. Accade sempre qualcosa che produce suono». Ma per captare quel qualcosa bisogna sottrarsi al rumore di fondo.
Nel 2011 il regista ha aperto uno spazio (silenzioso) per creativi, un posto chiamato Club Silencio, a Parigi, in rue de Montmartre. Un club con quel nome era già apparso sul finale di Mulholland Drive. Nel Club ci sono un piccolo palco, una biblioteca, un cinema, una stanza per fumatori.
Lynch lo presentava così: «Tranquillo aiuta a sciogliere le tensioni. Ritrovi la sintonia con te stesso. C'è una magia nell'assenza di suoni»
Imparare la sottrazione dalla massa infinita di immagini e rumore, ricreare le condizioni per l’ascolto del silenzio, dare vita ai presupposti per vedere oltre, ecco cosa serve per accorgersi dell’altro da sé.
È solo così che impari ad ascoltare meglio e anche a guardare meglio.