E tutti danzarono. Da soli.
Riflessioni sull’ultimo libro di Alessandro Bertante (La nave di Teseo)
Oggi al potere non serve più persuadere nessuno. Basta pervadere oltremisura l’infosfera.
Di cosa? Non è importante, tanto nessun cervello umano è più in grado di decodificare la pervasiva ipervelocità dei segni.
«Stanno per saltare i limiti dell’interpretazione» ci avvertiva il professor Eco, e lo aveva pure scritto in un libro che si intitola proprio così: I limiti dell’interpretazione.
L’accelerazione degli info-stimolatori inibisce il pensiero, la ragione, la riflessione, li rende inutilizzabili. Non pensarci, fallo e basta. Just do it! Segui il flusso!
È quello che fanno i giovani di “E tutti danzarono” (La nave di Teseo), ultimo libro di Alessandro Bertante.
Il sindaco di Milano organizza una «Festa del Solstizio d’Estate», tre giorni di rave nei parchi cittadini, dove affluisce una marea di giovani. A introdurre il lettore è la voce narrante cinica e disillusa di Ivan Boscolo, docente di lettere alla Statale che vive in una nevrotica melancolia: «Fateli danzare che così dimenticheranno in fretta l’enorme buco nero di fronte a loro». Il freddo scetticismo del professore per il “rave” dura fino a quando scopre che anche la figlia diciasettenne parteciperà all’evento. Così inizia la sua preoccupazione che diventa terrore vero e proprio quando arrivano le prime notizie dalla festa danzante: in quello che sembrava un rito tribale e carnevalesco s’innesta qualcosa di perturbante. I giovani danzatori appaiono sempre più come una schiera di zombi, che nonostante il caldo asfissiante, nonostante le manganellate della polizia, quando cadono si rialzano inebetiti e ricominciano a ballare. Si rivelano vittime passive di una specie di sortilegio.
Che sia una allusione alla dura realtà sociale del presente?
Comunque sia Ivan Boscolo inizia una ricerca spasmodica della figlia.
Nessuno sa un niente Ivan, un cazzo di niente, hanno intervistato sociologi, psichiatri, antropologi e storici, persino dei mezzi santoni ciarlatani curanderos ma tutti brancolano nel buio, ci sono teorie di ogni genere, non puoi capire in rete le cazzate che scrivono, fra scie chimiche, radiazioni, gas sparsi nell’aria e chip inseriti sotto la pelle con i vaccini del Covid; e la polizia sta facendo solo danni, come al solito, stendono e arrestano ogni ragazzo che incontrano.
Chi sono questi giovani? È una domanda che mi faccio da tempo, almeno da quando sono padre, mentre li incrocio quotidianamente nel loro vagare con lo smartphone che sempre cela la loro vera fisionomia.
Vanno a scuola, fanno i compiti, fanno ripetizioni, vanno a chitarra…. non si fermano mai. E appena si fermano lo sguardo cade sull’unico fedele compagno: il telefono. Lo consultano, poi si guardano attorno e sospirano. Nessun coetaneo è lì fuori, sono tutti così, dentro qualche percorso formattato o da adulti o da qualche applicazione. Prigionieri incolpevoli di un mondo produttore di ansia da prestazione e inquietudine, tra aspettative altissime e terrore del fallimento, tra valutazioni e giudizi continui. Le uniche illusorie libertà, gli unici modi di superare tutti i recinti imposti, stanno lì in quel dispositivo multimediale: nelle chat, nelle immagini, nei video, nelle musiche. Che scorrono in uno scrollare continuo e senza soffermarsi su niente.
Il loro corpo diventa un intrigo, un ingombro, di cui non si riconoscono più i limiti. Perché? Il virtuale non ammette le imperfezioni corporee che sono solo d’intralcio allo scorrere liscio, glabro dei dati. Il ballo, quello conosciuto nei social media, è una ripetizione continua e senza fine di un frame formattato e filtrato, un individuale specchio che ti riflette in un reel senza fine.
Infatti i corpi (questi sconosciuti) descritti nel romanzo ballano da soli, ognuno per sé.
Il risultato ce l’avevo davanti agli occhi, gli stessi corpi dei ballerini silenziosi che per un istante mi avevano illuso di essere liberi erano un’immagine tristissima e senza speranza.
Quegli spettri argentei che danzavano avvolti dalla luce lunare erano i nostri figli. E li abbiamo lasciati soli.
Si salvano solo in pochi da questa sciagura, hanno altri obbiettivi, non ballano, si organizzano in piccoli gruppi violenti. I media li chiamano «anarchici», «black bloc» o «maranza», senza sapere bene il perché. Però il motivo appare chiaro, seppur non esplicitato: sono immuni i giovani chi vivono ai margini della società, forse per la loro consapevolezza disperata.
Bertante non offre risposte rassicuranti, e il romanzo si chiude con un’eco angosciante: l’uscita dall’incubo, questa volta, sembra non contemplare nessuna via d’uscita.
E così tutti danzano fino alla fine. Da soli.