“Il calcio del figlio” di Wu Ming 4 (Alegre)
gioie e disperazioni dentro e attorno un campo sportivo
Quando ero preadolescente l’unica cosa che mi interessava era giocare a calcio, col passare degli anni il gioco si è trasformato pian piano da gioioso piacere a triste dovere, e alla fine ho abbandonato totalmente questo sport. Felice di averlo abbandonato, sia come calciatore che come spettatore, per anni ho fatto finta che non esistesse. Poi sono diventato padre e mio figlio, che un po’ mi assomiglia, ha cominciato ad appassionarsi al calcio, e così per forza di cose mi sono riavvicinato ai campi sportivi. Prima solo per vederlo giocare, in seguito l'ho portato più volte allo stadio di Udine per assistere a partite della serie A, infine addirittura per calciare qualche pallonata assieme (nelle partite genitori vs allievi). E sapete una cosa: il calcio è tornato a piacermi.
Non sono e non sono mai stato un tifoso, anzi in genere sono infastidito dal tifo, ma il calcio, quando continua ad essere l’arte dell’imprevisto e dell’invenzione, quando riesce a essere “fantasioso” o ad invertire ogni pronostico, ancora mi diverte. Succede molto di rado nel calcio professionista. Succede più spesso nelle giovanili quando la tattica e il risultato ancora non hanno completamente sostituito l'allegria di giocare per giocare.
Ma ora ritorniamo alla mia preadolescenza, quando il figlio ero io, e mio padre era dirigente della squadra in cui giocavo. Ero un raccomandato? Macché! Il mio era l’unico genitore a guardare le nostre partite e mi urlava contro continuamente. Non solo a me, per la verità, urlava a tutti. A me però gridava un po’ più forte.
Il problema era che avevo, fin da piccolo, una visione del calcio diciamo “alternativa”, difatti il mero risultato non mi hanno mai entusiasmato, ho sempre preferito il bel gioco e il divertimento. In definitiva non riconoscevo come valore essenziale né l’attaccamento alla maglia, né la tifoseria da ultras. Giocavo bene solo se mi divertivo e nella mia testa adolescente questo doveva valere anche per la squadra. Strano, no?
Ricordo i mondiali di Spagna dell’82 quando l’Italia diventò campione del mondo e tutti i mei compagni di squadra sventolavano il tricolore elettrizzati: l’Italia del catenaccio e del contropiede buttò fuori il bel gioco di quel Brasile. A me po’ dispiacque. Solo un poco per carità, ma mi sentivo l’unico a provare quello stridore. Probabilmente ero e sono poco nazionalista anche nel calcio, anzi direi che sono un internazionalista anche nel calcio.
In genere non mi piace parlare di pallone, nonostante abbia occupato una buona fetta della mia vita, perché di solito lo trovo troppo condizionato dal tifo, però ho appena finito di leggere “Il calcio del figlio” di Wu Ming 4, ovvero il racconto dell’esperienza dell’autore sulle tribune e a bordo campo, al seguito del figlio calciatore, nell’arco di oltre dieci anni. Un libro che ci catapulta nella vita delle varie società giovanili tra padri troppo presenti o troppo assenti, esaltati o finti distaccati, ricchi o poveri… sono papà poliziotti, artigiani, imprenditori, professionisti, operai…
Inoltre è una lettura che ci chiama in causa: come ci saremo comportati noi? La risposta mi ha riportato a tutte le domeniche mattina dedicate alle partite di mio figlio che ogni due settimane si trasformavano in trasferte costringendomi a fare centinaia di km di strada. Leggendolo ho ricordato le gioie e le disperazioni di quel periodo, ho rivissuto le ore passate con persone che mai avrei intrecciato senza il tramite del calcio.
Ti ritroverai a consolarlo al telefono. Tu, uno che non ha manco fatto la naja e l’unico esercito che ha frequentato in gioventù è l’EZLN in Chiapas, che argini le lacrime di un militare di carriera ultradestroso per la fine di una fase della vita. Hai fatto anche questo.
Alcuni degli episodi raccontati nel libro sono talmente simili a quelli che ho vissuto anch’io che sono rimasto stupefatto e non può trattarsi di una coincidenza. Probabilmente con Wu Ming 4 condivido la stessa sensibilità nello sguardo che si è formata attraverso alcuni percorsi comuni: entrambi siamo cresciuti attorno ai centri sociali, entrambi eravamo Disobbedienti al G8 di Genova e soprattutto entrambi eravamo tute bianche alla marcia Zapatista. In Messico ci chiavavano “Monos Blancos” (scimmie bianche) e mi vengono ancora le lacrime agli occhi quando ripenso alla favola della scimmia bianca scritta da Wu Ming 4 per l’occasione e letta dallo stesso davanti a una sala gremita alle porte di città del Messico quando ci siamo congedati dal ruolo che il Subcomandante Marcos e la Comandancia Zapatista ci avevano assegnato. Uno dei momenti più commoventi della mia vita.
I genitori poveri non possono permettersi di pagare cinquecento euro l’anno a figlio per farlo allenare e, soprattutto gli stranieri, se anche potessero, hanno forti resistenze culturali in questo senso. Ecco uno dei motivi per cui in Italia, rispetto ad altri paesi europei, faticano a emergere talenti tra i nuovi italiani, i figli di immigrati di seconda generazione: sono relativamente poche le famiglie che li iscrivono alle società calcistiche
Una sensibilità che in qualche modo ho ritrovato anche in questo libro, nella descrizione dell'ambiente che oramai circonda anche il calcio giovanile. Dall'incomprensibile comportamento di alcuni genitori tifosi, ai quali bisognerebbe dedicare un approfondito studio sociologico, fino al fatto che, quando li frequenti, piano piano entri in certe dinamiche, e cominci a capirle e quasi quasi a condividerle.
Se la vita che facciamo è frustrante e depressiva per sei giorni su sette, allora è nella partita del settimo giorno che cerchiamo soddisfazione, riscatto, giustizia. Quella soddisfazione, quel riscatto e quella giustizia che ci vengono negati sempre. E allora ci si arrabbia sugli spalti, fino a perdere il lume della ragione e a fare cose che lontano da quel campo non ci si sognerebbe mai di fare.
Quindi tutto ok?
Per niente! A volte, in campo e sugli spalti, succedono cose che indignano e nonostante gli sforzi non riesci a mandarle giù: il razzismo di ogni genere e grado diventato ormai luogo comune, l’arrivismo che spintona via gli altri, la vittoria ad ogni costo. Tutte cose che non ricordavo così accentuate quando giocavo io. Ad esempio, nella mia modesta carriera di calciatore ho avuto molti allenatori, alcuni più severi, altri più comprensivi, alcuni urlatori nati come sottufficiali dei marines, altri più tranquilli, ma nessuno di questi mi ha mai insegnato ad essere scorretto. Metterci agonismo sì, ma sempre col rispetto per l'avversario. Oggi sento sempre più spesso insegnare a barare, a simulare, a fare i furbi.
Solitamente non m'immischiavo, trovavo ingiusto interferire con le scelte del tecnico e della società, anche quelle difficili da buttar giù, ma in un frangente mi sono messo contro l’allenatore e ho detto a mio figlio di non ascoltarlo, che il furbo e chi insegna la furbizia ha poca dimestichezza con l'intelligenza. Nel calcio grinta e intelligenza devono andare assieme.
Certo anche tu hai i tuoi dubbi, tu che hai sempre scelto di stare dentro esperienze collettive paritarie, senza gerarchie, senza trattamenti differenziati, e di non prendere ordini da nessuno. Anche tu preferiresti vederlo ribellarsi e alzare i tacchi, invece che portare il sacco dei palloni e guardarsi la partita dalla panchina. Se taci è soprattutto perché non vuoi fare pressioni di sorta sul ragazzo e vuoi continuare a sostenere la sua esperienza sportiva finché vorrà portarla avanti.
Già lo so che qualcuno storcerà il naso ma, pur essendo consapevole di tutte le immense contraddizioni che il mondo del calcio contiene, per la durata della partita riuscivo a evadere. A vedere e sentire solo quello che succedeva dentro quel rettangolo, lasciando fuori il resto. E ritornavo il ragazzo de “La leva calcistica della classe '68” così da poter rivivere assieme a mio figlio quelle emozioni con quella struggente intensità dell'avere 14 anni col pallone ai piedi. Ad un certo punto mi sono trovato, da ultra cinquantenne, a cantare dagli spalti «Nino non aver paura di tirare un calcio di rigore» durante una finale di un torneo estivo dove la nostra squadra se la giocava ai calci dal dischetto.
Oggi mi sentirei parecchio stupido nel farlo.
Dopo aver letto il libro di Wu Ming 4 ho ripensato a quell’episodio e mi sono sentito molto meno stupido, e dirò di più: mi sento molto felice di aver vissuto quegli anni e di aver condiviso le gioie e le disperazioni dentro e attorno ad un campo sportivo con una umanità disparata, unita dal “calcio del figlio”.