In selvaggia armonia
riflessioni a margine dell'Estratto festival – San Donà di Piave
Nello scorso fine settimana sono stato a “Estratto”, un prezioso festival cultural/letterario organizzato dalla libreria indipendente Raggiungibile di San Donà di Piave, giunto alla seconda edizione. Beh, a dire il vero, sono stato presente solo a pochissimi dei moltissimi incontri della tre giorni del festival, ma ho comunque potuto percepire l’effervescente aria che ha spazzato via l’odore di stantio che spesso si respira nella provinciale cittadina in cui vivo. E sono convinto che quello che respiriamo, vediamo, ascoltiamo, abbia delle conseguenze. Sulla nostra esistenza e sul luogo in cui viviamo.
La nostra città, come tante altre, sembra in preda alla smania di dare spazio ad eventi dedicati al cibo, al mangia e bevi, che lasciano per giorni un diffuso odore di fritto nell’aria, un denso strato di unto a terra, parecchi grassi da smaltire nel corpo, niente di nutritivo per la mente. Poco male, diranno i più, almeno la città è piena di gente, ma la mancanza di nutrimento per la mente a volte si fa sentire, quanto meno a me manca.
“Estratto Festival” che propone invece eventi che mirano a distillare l’essenza delle storie raccontate, per arrivare al cuore delle cose è riuscito ad estrarre alcuni di quei principi nutritivi che più mi fanno star bene.
Quali? Quelli che raccontano narrazioni sfuggenti, che vanno oltre i confini ben definiti.
In selvaggia armonia, ad esempio, è stato un reading dove parole, suoni e silenzio si sono dipanati giocando tra loro. I confini tra questi elementi alla fine si sono mescolati legandosi in un tutt’uno attraverso una trama che si è fatta poesia sonora.
Protagonisti della performance Samuela Barbieri, che ha letto le sue brevi ma intense poesie accompagnata da Giorgio Ricci alla parte musicale. Ho sempre considerato Giorgio un grande dell'elettronica italiana. Il suo è un muoversi silenzioso all'interno di un mondo nel quale convivono le diverse gradazioni che l'oscurità permette di mostrare. E in questo caso l’incedere dark del suo suono è riuscito a trasformare la poesia recitata da Samuela Barbieri in celebrazione elettronica. Bello!
Il secondo incontro di cui vorrei parlare è la presentazione di “Fumana”, ultimo libro di Paolo Malaguti, moderato da Matteo Polo e con le letture di Tania Dussin.
Il romanzo narra di una bambina, ragazza, donna sopranominata Fumana, parola che nella bassa del Po vuol dire nebbia. In quel mare pallido che copre ogni cosa come un mantello, la protagonista ritorna ogni volta che vuole perdersi o ritrovarsi.
Fumana cresce libera e selvaggia, ma quando comincia a farsi donna, il nonno Petrolio deve chiedere aiuto alla Lena, la «strigossa» della zona. Lena le insegnerà molte cose, tra le quali i segreti per guarire le persone. Fumana diventa così segnatrice.
Paolo Malaguti ci dice che è stato proprio il mondo, quasi scomparso, delle segnatrici a istigarlo nella scrittura del romanzo e ci fa notare come noi occidentali, senza pensarci tanto, nel nome del progresso facciamo sparire saperi millenari. Probabilmente anche la medicina moderna, riflette l’autore, ha qualcosa da imparare da queste “strigosse”, se non altro l’approccio empatico con il paziente, che probabilmente era il valore aggiunto del loro mestiere. Insomma, come spesso accadde, buttare via il bambino con l’acqua sporca non è mai saggio.
Altro protagonista del romanzo è il territorio del basso Veneto, del delta del Po, che tra la fine dell’ottocento e metà del novecento ha subito uno stravolgimento, e anche in questo caso il progresso ha azzerato senza pensarci tanto il mondo che esisteva prima.
Le valli e le paludi sono luoghi che mi hanno sempre intrigato, del resto sono nato e cresciuto nel basso Piave, in un territorio in cui le molte acque incerte definivano gli spazi e il tono delle esistenze dei miei antenati. Li definivano “vaghi” perché vivevano dove l'acqua esondava riprendendosi gli spazi dove avevamo progettato di stabilirsi, creando nuovi stagni, paludi.
La modernità e le bonifiche ci hanno liberato da quel mondo instabile e dalla sua “mala-aria” con una trasformazione radicale dei luoghi dove tuttora abito. Una tabula rasa del mondo precedente che ha portato tanti benefici, ma che ha fatto uscire l'acqua, elemento instabile per natura, dalla quotidianità della vita. Il rapporto che c'era con quel confine incerto tra terra ed acqua veniva cancellato e con questo veniva eliminata anche quella adattabilità e quella saggezza, indotta da quel territorio, che liberava dal bisogno di sicurezza, che a ben pensare non esiste mai, se non nel suo significato etimologico di assenza di paura (sine cura).
Al giorno d’oggi la percezione della paura, in certi casi amplificata da media e politica, è il modo migliore per aumentare l’insicurezza e l’unico modo per superarla consiste nel non aver timore dell’altro da sé, nel volgere lo sguardo curioso verso lo sconosciuto, di andare a vedere oltre e al di là di quello che ti viene fatto vedere. Proprio come fanno Fumana e Lena, le due donne che nel libro di Malaguti sembrano essere dotate della capacità di guardare oltre il visibile, di convivere con l’instabile, di adattarsi ai cambiamenti, pur cercando tenacemente la propria strada.
Lo sviluppo velocissimo degli ultimi decenni si è troppo spesso intrecciato con l’avidità umana e oramai ha tragicamente consumato il pianeta.
La palude, che è sparita dal nostro orizzonte, era per sua natura nemica degli approdi stabili, inadatta a stabilire primati, anche quello del mercato e del consumo.
Eh sì, devo ammetterlo, per sopravvivere devo crearmi antidoti al “pensiero unico”. Frequentemente li trovo in libri come questo, perché il loro “estratto” spesso deborda nel mio cervello modificandone la geografia. Come succedeva alle terre basse dei miei antenati, nella palude.
Mentre pedalavo verso casa, di ritorno dall’Estratto festival, pensavo che ritrovare, anche solo per un poco, quella “selvaggia armonia” ci farebbe bene.




