Lo spaesamento veneto
appunti su «Le città di pianura» di Francesco Sossai
“L’aqua marzise i pai” (l’acqua imputridisce i pali) recita uno scherzoso proverbio rurale veneto che incoraggia il consumo di vino. Perché il consumo, si sa, porta i schei, e i schei sono diventati la divinità che ha sostituito Reitia, la divinità femminile venerata dagli antichi Veneti, considerata la protettrice delle acque. Però il Veneto è la regione più anfibia d’Europa con i suoi fiumi, laghi, lagune e le paludi. Siamo letteralmente circondati d’acqua e sull’acqua camminiamo perché sotto i nostri piedi, i fiumi alpini alimentano una sterminata prateria di acquiferi sotterranei. L’acqua però è stata declassata a pura risorsa da estrarre, nascosta nei tubi, usata senza rispetto e inquinata, sprecata, ed è scomparsa dal paesaggio che sempre ci ha definito. Immaginare il Veneto, di montagna o di pianura, distante dall’acqua e dalla sua visione, è stato perdere l’identità più pregnante della nostra storia.
Ci siamo spaesati, come spaesati sono i due protagonisti di «Le città di pianura» di Francesco Sossai. Carlobianchi (Sergio Romano) e Doriano (Pierpaolo Capovilla) sono due romantici e malinconici cinquantenni privati di quella geografia che ci definiva un tempo e pure senza quella che ci definisce oggi: i schei. Erano operai, sono rimasti senza lavoro, uno sta dai suoi, l’altro dove capita. Nelle notti in giro per la pianura, forse soltanto per non tornare a casa, si raccontano allo sfinimento le proprie gesta , compiute un secolo fa, quello scorso. Cercano l’ultimo bicchiere, l’ultimo bar, che però non esiste perché ce ne sarà sempre un altro, perché non ci si ferma, si scivola all’infinito.
Poi succede che per caso i due incontrano Giulio (Filippo Scotti), che è campano ma studia architettura a Venezia, è un ragazzo timido, serio, non potrebbe sembrare più lontano dai due. Durante la visione ci si chiede spesso perché resta con loro, magari è solo la curiosità per la “prospettiva” diversa che incarnano. E così sale in macchina e finisce anche lui in quel “spaesato paesaggio” della pianura veneta da cui sembra non ci sia una via d’uscita. Carlobianchi e Doriano tracciano confuse mappe su fogli stropicciati, ma le loro sono rappresentazioni del loro spaesamento e difatti non coincidono con nessuna cartina su google maps, che tra l’altro solo Giulio sa usare.
C’è un fotogramma del film che mi ha colpito più di altri perché rivela questa perdita di orientamento dei veneti ed è quando i tre vengono inquadrati con alle spalle un capitello votivo. I capitelli dedicati alla Madonna lungo i canali hanno sostituito, con l’arrivo del cristianesimo, i segni della devozione a Reitia. Dea dimenticata dai veneti che sapeva accogliere in una geografia in cui le molte acque incerte definivano gli spazi e il tono delle nostre esistenze. Purtroppo il Veneto, di montagna o di pianura che sia, si è allontanato irrimediabilmente dall’acqua e dalla sua visione, e così ha perso la sua identità. E ha creato uno spaesamento che si è svelato un fallimento.
Il film disegna una cartografia esistenziale di coloro che abitano un territorio devastato, quella provincia veneta anonima, rimodellata da industrializzazione, economie, scempi estetici del paesaggio.
Giulio, osservando un dipinto della scuola del Veronese, fa notare come in quel “capriccio” le montagne si uniscono direttamente alla Laguna veneta cancellando tutto quanto sta nel mezzo, ovvero «le città di pianura».
Il consumo sfrenato ha consumato il territorio e i suoi abitanti. L’unica speranza è un cambiamento di prospettiva, forse quello che intravedono i tre protagonisti dalla Tomba di Brion di Carlo Scarpa.
Più che una tomba sembra un luogo di elaborazione del lutto per un Veneto che non c’è più.



