Radici nel cemento
le crepe del paradigma urbanistico neoliberale
Ogni mattina mi sveglio alle 5 e mezza, inforco la bici per andare a prendere il treno. Scendo dal vagone e salgo su un’altra bici e pedalo ancora un po’ di km per arrivare in ufficio.
Scelta salutista/ecologista? Macché!
Me l’avevano detto: così ti respiri tutto lo smog che, grazie ad un abile sistema di filtri studiato da ingegnosi ingegneri (lo dice la parola stessa), chi è in auto mica si respira. In effetti l’aria si fa ogni giorno più irrespirabile ma sembra che nessuno se ne accorga.
Me l’avevano ripetuto: così ti tocca sorbirti l’alito cattivo e caldo che, grazie ad un abile sistema di condizionatori studiato da ingegnosi ingegneri (lo dice la parola stessa), chi è in auto mica si sorbisce, anzi mentre lui sta al fresco e a te tocca l’afa aumentata. In effetti l’aria si fa ogni giorno più calda ma sembra che nessuno se ne accorga.
E infine oltre il danno la beffa, per metterti in sicurezza, per farti la pista ciclabile, ti tolgono l’unico sollievo che ti resta: gli alberi.
E così ogni mattina ricomincia il mio tormento: «possibile che anche chi deve fare pochi km usi l’auto?»
Il nord-est è una ragnatela di chilometri d’asfalto che attraversa l’immensa metropoli diffusa. Migliaia di disgraziati la percorrono ogni giorno perché l’inferno della produzione diffusa li obbliga a farlo, ma non si rendono conto che siamo in trappola.
«I can’t breathe, I can’t breathe!» ripeteva il giovane strangolato alcuni anni fa da un poliziotto a New York. E quelle parole mi sembrano il segno del tempo che viviamo.
Sarà una mia fissazione ma a volte, mentre pedalo o cammino in città, mi sento soffocare. Solo quando vedo qualche viale alberato mi pare di respirare meglio, mi rilasso e non mi rodo dentro. Ecco perché ogni volta che sento parlare di abbattimento di alberi mi manca il respiro. Anche solo dal punto di vista culturale questa cosa la trovo soffocante.
Per fortuna, a volte, allungando la strada, facendo il giro più largo, qualche viale alberato ancora lo trovo. È raro, ma lì c’è almeno l’illusione di poter respirare. La consolazione dura poco perché gli strangolatori vogliono continuare il loro piano di strangolamento: ancora abbattimenti di alberi, sempre le stesse ormai logore motivazioni. Come Eric Garner ripeto: «I can’t breathe, I can’t breathe!» mentre la morsa di smog, clacson e condizionatori che alitano da scatole di lamiera continuano a stringere la mia gola.
Amico amministratore, sindaco, assessore, consigliere, amico caro, se non riesco a respirare come vuoi che pedali?
E che me ne faccio della bollente pista ciclabile?
Soprattutto oggi che il cambiamento climatico ci dice, senza se e senza ma, che sarà sempre più ribollente!
Ormai è chiaro che la formula presentata per anni come vincente – “rigenerazione”, “valorizzazione del territorio”, “attrazione di capitali” – è in realtà una traiettoria in funzione della rendita immobiliare. E le piste ciclabili sono spesso la scusa che serve per l’ennesima speculazione edilizia, per nuove gettate di “cemento amato”.
Il socio che sta dentro di me, quello più cinico, quello che sempre più spesso ha ragione, mi suggerisce che in realtà è proprio così.
L’unica speranza che resta sta nelle crepe profonde che il paradigma del “cemento amato” comincia a mostrare (vedi Milano).
Fortunatamente dal basso, anche a San Donà, sta mettendo radici un pensiero alternativo che da quelle crepe sta venendo alla luce:



